Paranoie pandemiste: in ambulanza manca la mascherina, infartuato muore per il ritardo.
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Il medico dell’ambulanza si rifiutò di trasportare a Reggio Calabria un infartuato, perché, a fronte di un sospetto Covid, a bordo mancavano le mascherine. La Procura imputa alla dottoressa il ritardo fatale e la Cassazione conferma la sua sospensione. Denuncia di Avvocati liberi: «La pandemia ha inoculato una tirannia del diritto emergenziale».

Quando la malasanità si unisce alla nevrosi instillata durante la pandemia si possono generare vere e proprie follie. Una dottoressa del 118 di Taurianova si è rifiutata di caricare in ambulanza un uomo colpito da infarto perché a bordo mancavano le mascherine di protezione per il covid. Ora la donna è indagata per aver provocato la morte dell’uomo a causa del grave ritardo generato dalla sua condotta, ma nel frattempo è diventata dirigente, pur essendo stata sospesa dalla professione.

I fatti, denunciati da Ali (Avvocati Liberi) attraverso la propria pagina Telegram, hanno conosciuto una svolta solo oggi perché la Corte Suprema di Cassazione, quarta sezione penale, quella che si occupa di reati sanitari, ha rigettato il ricorso dei legali della professionista contro il provvedimento di sospensione dal lavoro. 

Si è venuta così a scoprire questa storia che parte nel marzo del 2023, quindi a emergenza sanitaria abbondantemente terminata, quando l’uomo si presentò al pronto soccorso di Gioia Tauro per un infarto. Secondo la Procura, che l’ha indagata ai sensi dell’articolo 40 comma 2 del Codice penale (condotta omissiva che equivale a generare un evento), la professionista, rifiutandosi di trasportare a bordo del mezzo l’uomo, per il sospetto che fosse positivo al Covid-19 e perché sprovvisto di mascherine, non avrebbe impedito la sua morte e quindi l’avrebbe provocata.

In realtà l’uomo era risultato negativo ad un secondo tampone di controllo effettuato in pronto soccorso, ma ormai per lui era troppo tardi.

La Procura l’ha iscritta nel registro degli indagati imputando alla dottoressa il grave ritardo che se non ci fosse stato avrebbe potuto salvare l’uomo se lo avesse doverosamente e tempestivamente trasportato all’ospedale di Reggio Calabria.

Trattandosi di una colpa che se accertata sarebbe gravissima, il tribunale reggino, sia il Gip che in Appello, aveva deciso di applicare al medico la misura cautelare interdittiva della sospensione dall’esercizio del pubblico servizio per 12 mesi. La donna ha impugnato il provvedimento e si è così comparsi davanti alla Cassazione, che il 4 marzo scorso ha depositato la sentenza n. 9188 rigettando il ricorso cautelare del sanitario, rinviando al Tribunale solo per dirimere una contraddizione tra motivazione e dispositivo in ordine al tempo di durata dell’interdizione.

Ora la donna è indagata. Ma nel merito, la decisione della Corte di Cassazione è importantissima. «Riafferma un principio di grande rilevanza per il ripristino della logica, del buon senso, del diritto e soprattutto della tutela dei cittadini nel pretendere cure e assistenza adeguate – scrive l’avvocato Angelo Di Lorenzo di Ali -, confermando il pericolo della condotta sprezzante del medico, incurante della necessità di bilanciare la vita di un paziente che versava in condizioni critiche con il rischio di contagio di una persona che era pure vaccinata».

In attesa che le indagini facciano il loro corso, dunque, e presumendo l’innocenza fino a condanna definitiva, la Corte ha ritenuto la condotta del medico «incosciente ed ingiustificata, di disinteresse verso i rischi per la salute del paziente a fronte di un minore e pressoché inesistente pericolo di contagio», prosegue Di Lorenzo che alla Bussola aggiunge anche una ulteriore contraddizione logica.

«Il paziente era vaccinato – come pure la dottoressa ndr. – quindi anche a fronte di un eventuale contagio da covid, per il quale c’era solo un sospetto, non avrebbe avuto nulla da temere. O forse è la prova ulteriore che la vaccinazione non poteva mettere al riparo dai contagi?».

Effettivamente in questa storia molti elementi fanno a pugni con il buon senso. Nel dispositivo, i giudici della quarta sezione penale, hanno rilevato la condotta omissiva del medico anche a fronte della disponibilità del nosocomio di dotare il mezzo con mascherine proprie, essendo quello di Gioia Tauro un ospedale con reparto covid annesso. Ma la donna si è rifiutata ed è tornata indietro per recuperare la dotazione di mascherine, ma facendo così correre le lancette dell’orologio. L’uomo infatti doveva essere trasferito al più presto all’ospedale di Reggio Calabria dove è presente una unità di terapia intensiva cardiologica, ma quel trasferimento è stato ritardato di 46 minuti. E, come noto, quando si tratta di infarto anche solo cinque minuti possono fare la differenza.

I legali del medico hanno ribattuto che il comportamento della loro assistita non avrebbe potuto evitare il decesso, avvenuto alle 22.15. Ma nel merito delle accuse sarà la Procura, una volta svolti gli accertamenti a dirimere la questione in punta di diritto.

Quel che è significativo ora, è riaffermare che la vita di un paziente vale molto di più delle mascherine e di tutte le sovrastrutture mediche imposte secondo una logica spesso ossessiva e antiscientifica. In poche parole: bisognava salvare quell’uomo fregandosene della sua eventuale positività.

Ma questo comportamento al limite del paranoico è spia di un costume che si è affermato in molti sanitari e che, come abbiamo visto, va ben oltre il periodo pandemico. È come se si fosse affermata una nevrosi da mascherina che difficilmente ci toglieremo di dosso, soprattutto in ambito sanitario perché la mascherina ha assunto le caratteristiche del feticcio.

«In questi ultimi anni il Covid-19 – ha proseguito di Lorenzo – ha inoculato nel nostro ordinamento una sovranità ideologica, che ha prodotto una sorta di tirannia del diritto emergenziale e del servizio sanitario autoregolato dai singoli operatori, le cui egoistiche e timorose convinzioni soggettive sono rimaste senza controllo e senza responsabilità».

È successo veramente di tutto all’interno delle strutture sanitarie italiane, e non solo. Infatti «la gran parte dei medici ha abbandonato i malati al loro destino; in moltissimi si sono girati dall’altra parte in forza di protocolli istigativi della omissione, perché l’approccio era stare lontano il più possibile dagli untori e vigilare fino al sopraggiungere degli esiti fatali».

Fonte: La nuova BQ

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