Le proposte della Cina per un ordine internazionale alternativo a quello occidentale
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La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore […] il nuovo non può nascere e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
Antonio Gramsci
Grande è il disordine sotto il cielo. La situazione è dunque eccellente
Mao Zedong

E’ nostro desiderio approfondire quanto scritto in un nostro articolo di qualche giorno fa (vedi qui) circa il ruolo della Cina nel NWO multipolare e nei BRICS.

Negli ultimi mesi la Repubblica Popolare di Cina si è segnalata per uno spiccato attivismo per cercare di ridefinire una propria visione di un ordine internazionale alternativo a quello offerto dall’Occidente – il cosiddetto “rules-based international order” (anche se le «regole» non sono state mai veramente scritte da nessuna parte ad eccezione della Carta delle Nazioni Unite, un’organizzazione di cui fanno parte 193 Stati che però vede le risoluzioni della sua Assemblea Generale sistematicamente ignorate dagli USA e dalle altre grandi potenze, la Pax Americana, avanzando proposte sulla sicurezza globale e sulla risoluzione del conflitto ucraino.

A fine febbraio, il Ministero degli Esteri cinese ha pubblicato tre fondamentali documenti che definiscono la visione cinese del mondo e della comunità internazionale. Il concept paper della Global Security Initiative (GSI), il documento US Hegemony and its Perils e il documento che illustra la proposta cinese per una soluzione politica alla guerra in Ucraina.

Documenti che hanno l’ambizione di presentare la Cina come forza per la stabilità e la prosperità globali, che vuole ispirare una “modernizzazione” post-occidentale in tutto il mondo, in particolare nel Sud del mondo, non perseguita attraverso la guerra, il colonialismo o l’espropriazione.

La narrazione ufficiale in Cina (ma anche nel Sud globale e nei paesi europei che sono scettici sulle politiche statunitensi per contenere la Cina) è che gli Stati Uniti rispondono ai problemi militarmente, mentre la Cina usa il dialogo e la cooperazione pacifica. “Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità”, sosteneva Sun Tzu.

Proviamo ad analizzare i contenuti di queste proposte e a ragionare sulle possibili evoluzioni e prospettive, ritenendo che esse offrano diversi spunti utili sulla percezione della Cina circa il suo ruolo nell’arena internazionale e sul suo posizionamento rispetto alle dinamiche globali del potere.

Contesto geopolitico: USA verso Cina

Sappiamo che la Cina è impegnata almeno dal 2018 in una competizione a tutto campo (sebbene al momento non un conflitto bellico) con gli Stati Uniti, la potenza ancora egemone, seppure investita da uno strisciante e progressivo declino che cerca di contrastare attraverso interventi unilaterali (sanzioni, protezionismo/decoupling/politiche industriali, esclusione di imprese dei paesi non graditi dall’accesso al mercato e alle tecnologie del mondo digitale; riarmo proprio e dei paesi amici, “guerre per procura”, ecc.), nonché un rilancio delle alleanze politico-militari occidentali (via Nato, Aukus, Quad, Five Eyes, ecc.), utilizzando la retorica della lotta tra il fronte delle democrazie e quello delle autocrazie. Nell’ultimo anno le tensioni tra USA e Cina sono cresciute, alimentate da posizioni divergenti su sanzioni economiche americane, Taiwan, guerra tra Russia e Ucraina, e l’incidente del pallone meteorologico/spia.

Negli Stati Uniti si è consolidato un forte consenso bipartisan sul “contenimento” della Repubblica Popolare Cinese sia in chiave militare, attraverso la mobilitazione del military-industrial complex e delle alleanze asiatiche a guida americana, sia in chiave tecnologica, con copyright (brevettazione monopolistica), restrizioni e sanzioni (oltre mille imprese cinesi sono state messe nella “lista nera” e gli USA affermano che la Cina potrebbe utilizzare l’app TikTok per lo spionaggio di massa dei cittadini americani, mentre loro utilizzano Google per spiare a livello globale), sia in chiave economica con una maggiore selettività nel gestire i rapporti commerciali.

Gli Stati Uniti (e la UE?) stanno cercando di ricostruire la globalizzazione escludendo la Cina dai settori strategici del nuovo ciclo di accumulazione (green e digitale). Utilizzando strumenti come politiche industriali, protezionismo, decouplingre-shoring friend-shoring stanno scommettendo sulla possibilità di dare vita a nuove catene globali del valore che siano capaci di tenere fuori le imprese cinesi (soprattutto nei semiconduttori avanzati, terre rare e batterie elettriche), anche se questo potrebbe significare che il tempo dell’elettronica di consumo a basso costo e della fast fashion sia finito.

La Cina sta rispondendo a questa strategia statunitense a tutto campo con una rinnovata iniziativa in politica estera, partecipando a esercitazioni militari congiunte con forze russe, sudafricane e di altri paesi, e soprattutto rilanciando il gruppo dei BRICS, allargandolo ad altri paesi del Sud globale e prevedendo la nascita di una moneta globale alternativa al dollaro, lanciando la GSI, l’Iniziativa per lo sviluppo globale (GDI), collegata all’Agenda 2030 dell’ONU, e l’Iniziativa per la civiltà globale (GCI, intesa a promuovere il dialogo, l’inclusività, il rispetto reciproco e il mutuo apprendimento in seno alla comunità internazionale), investendo nel piano “Made in China 2025” (per sviluppare 10 settori strategici del prossimo round di accumulazione) e nella Belt and Road Initiative (BRI) per realizzare infrastrutture fisiche, logistiche e digitali per connettere la Cina con l’Eurasia, l’Africa, l’Asia orientale e il Sud America, e rafforzando la Shangai Cooperation Organization (SCO) e la Eurasia Economic Union (EAEU) per costruire nuove piattaforme produttive e catene di approvvigionamento e valore legate a Pechino, in modo da mantenere e rafforzare la posizione centrale della Cina nelle catene del valore manifatturiere globali, sia che si tratti di beni ad alta intensità di lavoro o di tecnologia.

Sul piano politico, la Cina si presenta come l’alfiere dei paesi in via di sviluppo del Sud globale (la popolazione combinata rappresenta l’80% della popolazione mondiale e contribuisce al 70% della produzione economica globale), cercando di trasformare la sua potenza economica in influenza politica internazionale, sostenendo che dovrebbero avere maggiore voce negli affari internazionali (con una nuova governance globale) e che le persone di questi paesi dovrebbero avere il diritto di godere di una vita migliore (di uno sviluppo autopropulsivo).

Xi sta anche cercando di posizionarsi come statista globale per rivaleggiare con Biden. La Cina ha recentemente mediato un accordo tra Arabia Saudita e Iran (firmato a Pechino il 10 marzo 2023) per ripristinare le relazioni diplomatiche (entrambi i paesi hanno concordato di rispettare i principi della Carta delle Nazioni Unite, risolvere le loro controversie attraverso il dialogo, rispettare la sovranità reciproca e non interferire negli affari interni di altri paesi), una mossa salutata in Cina come una vittoria contro l’egemonia statunitense in Medio Oriente.

A differenza della rivalità della guerra fredda tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, lo scontro tra USA e Cina coinvolge due superpotenze nucleari che sono le maggiori economie del mondo e sono profondamente intrecciate sul piano economico. Il commercio di merci tra Stati Uniti e Cina valeva 690,6 miliardi di dollari nel 2022, con il dollaro e l’euro che costituiscono parti sostanziali delle riserve monetarie cinesi, e i tentativi su entrambe le sponde del Pacifico di districare il rapporto sono stati ostacolati da legami nel commercio, nella ricerca, nella tecnologia e nella cultura.

Si è aperta apparentemente una nuova fase storica, quella della globalizzazione selettiva basata su una frammentazione dell’economia-mondo in blocchi geopolitici e geoeconomici in via di «disaccoppiamento» (che secondo la managing director del Fondo monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, sarebbe “una ‘divisione pericolosa’ che lascerebbe tutti più poveri e meno sicuri”) – un blocco euro-atlantico con i suoi satelliti in Asia orientale e Oceania e un blocco euro-asiatico in formazione – che esprimono diversi modelli di sviluppo capitalistico e di rapporti strutturali tra sistema tecnologico e finanziario e sistema sociale e politico, e sono in forte competizione tra loro per la supremazia economica (integrazione e controllo di risorse strategiche, supply chains e mercati), politico-militare (sfere di influenza) e culturale (egemonia ideologica e soft power).

Al tempo stesso, come sostiene la maggioranza degli osservatori occidentali, negli ultimi mesi la Cina è diventata più “assertiva” nel rivendicare i propri interessi (allontanandosi forse definitivamente dal mantra “mantieni un basso profilo” di Deng).

Nella prima conferenza stampa da ministro degli Esteri (ex ambasciatore cinese a Washington), tenuta durante il congresso delle “Due Sessioni”, Qin Gang ha illustrato le linee di politica estera cinese per i prossimi 5 anni con un tono che i media mainstream occidentali hanno giudicato particolarmente bellicoso, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti.

L’avvertimento a Washington è di abbandonare al più presto l’approccio competitivo a somma zero, “la cosiddetta competizione della parte statunitense è il contenimento e la soppressione a tutto campo, un gioco a somma zero in cui tu muori e io vivo” spinto da quello che ha definito un “neo-maccartismo isterico” che sta infliggendo gravi danni alle relazioni bilaterali, ha detto.

Altrimenti, sarà inevitabile un “conflitto e scontro” tra le due potenze che mette a rischio “il futuro dell’umanità”. Al tempo stesso, ha difeso il rafforzamento delle relazioni del suo Paese con la Russia (che “costituiscono un esempio per le relazioni estere globali“), diventato un partner importante per la Cina da quando i due paesi hanno posto fine a una storica disputa sul confine nel 2005.

Un tono più aggressivo rispetto al passato che, secondo il Financial Times, sarebbe motivato dalla necessità di spostare l’attenzione dal ribasso delle aspettative di crescita del PIL cinese (ma, in realtà, con una stima di una crescita al 5,2%, un aumento di 2 punti percentuali rispetto al tasso 2022, il che significa che la Cina rappresenterà circa un terzo della crescita globale nel 2023) reduce da tre anni di politica zero-Covid e dall’ansia di Pechino per una realtà economico-politica globale in cui il rallentamento della crescita (prevista al 3% dal FMI) e il caos crescente – incarnato dalla guerra in Ucraina, ma anche dalla crisi del debito di decine di paesi poveri e da un’ondata inflazionistica che spinge le banche centrali dei paesi occidentali ad un rapido rialzo dei tassi di interesse, provocando deprezzamenti delle valute e deflussi di capitali dai paesi poveri – finisce per nuocere agli interessi cinesi. Non a caso, Qin Gang ha presentato la Cina e le sue relazioni con la Russia come un faro di forza e stabilità, e gli Stati Uniti e i suoi alleati come una fonte di tensione e conflitto.

In questo difficile e contrastato scenario geopolitico e geoeconomico, la Cina si sente pronta ad accreditarsi e ad essere riconosciuta dalla comunità internazionale (a cominciare da USA e UE) come una grande potenza responsabile. Un tentativo di rivendicare ed assumere apertamente un ruolo attivo di leadership globale che evidenzia il desiderio di individuare il vero terreno su cui deve essere misurata la crescente competizione con gli Stati Uniti.

La proposta cinese per una soluzione alla guerra in Ucraina

La Cina ha cercato di presentarsi come un pacificatore nel conflitto tra Russia e Ucraina (di “svolgere un ruolo costruttivo in questo senso” in quanto “grande paese responsabile”), ma la proposta cinese (un “position paper”) è stata molto rapidamente cestinata dagli USA (“è un inganno”) e UE (senza però presentare alcuna proposta alternativa), ma non da Kyiv né da Mosca.

La posizione ufficiale degli Stati Uniti rimane invariata: la guerra deve continuare per indebolire gravemente la Russia.

Il piano cinese per l’Ucraina, che, come tanti hanno scritto, non è un vero e proprio piano di pace (non offre misure specifiche), quanto un framework generale per arrivarci (“creare condizioni e piattaforme” per la ripresa dei negoziati): chiede colloqui di pace esortando tutte le parti a evitare l’escalation nucleare e porre fine agli attacchi ai civili.

Il documento è stato pubblicato il 24 febbraio, nel primo anniversario dell’invasione della Russia e contiene 12 punti:

1. rispetto della sovranità di tutti i paesi; 2. abbandonare la mentalità della Guerra Fredda; 3. cessazione delle ostilità; 4. ripresa dei colloqui di pace; 5. risoluzione della crisi umanitaria; 6. protezione dei civili e dei prigionieri di guerra; 7. mantenimento della sicurezza delle centrali nucleari; 8. riduzione dei rischi strategici (non uso delle armi nucleari); 9. facilitazione delle esportazioni di grano (con la Black Sea Grain Initiative firmata da Russia, Turchia, Ucraina e ONU); 10. fermare le sanzioni unilaterali (non autorizzate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che oggi rappresentano il principale strumento messo in campo da USA e UE per ostacolare lo sforzo bellico russo); 11. mantenere stabili le catene industriali e di approvvigionamento; 12. promuovere la ricostruzione postbellica.

Il documento non rivolge i suoi suggerimenti a una particolare parte del conflitto (il governo cinese ci tiene a presentarsi come “una parte neutrale attiva”), chiedendo invece a tutte le parti di “rimanere razionali ed esercitare moderazione” e di “rispettare rigorosamente il diritto internazionale umanitario, evitare di attaccare civili o strutture civili, proteggere donne, bambini e altre vittime del conflitto”.

Dal documento traspare che la Cina appare preoccupata dell’impatto negativo diretto e forte della crisi ucraina sul vasto numero di paesi in via di sviluppo che hanno urgente bisogno di raggiungere i propri obiettivi di sviluppo (si pensi ai punti che riguardano la facilitazione delle esportazioni di grano e il mantenimento stabile delle catene industriali e di approvvigionamento). Ritiene che sia proprio per questo che questi paesi non vogliono essere costretti a scegliere da che parte stare nel conflitto, ma sperano ardentemente che tutte le parti possano trovare una soluzione pacifica.

Il documento US Hegemony and its Perils

Il documento US Hegemony and its Perils  prende la forma di un rapporto che, “presentando fatti rilevanti”, espone l’abuso della propria posizione egemonica da parte degli Stati Uniti dalla politica alla cultura, passando per l’egemonia militare, economica e tecnologica.

Il documento sostiene che da quando sono diventati il paese più potente del mondo dopo le due guerre mondiali e la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno agito con sempre maggiore intensità per interferire negli affari interni di altri paesi, perseguire, mantenere e abusare dell’egemonia, promuovere la sovversione e l’infiltrazione e condurre volontariamente guerre, arrecare danno alla comunità internazionale.

La tesi è che gli Stati Uniti hanno sviluppato un manuale egemonico per inscenare “rivoluzioni colorate” (inclusa la “Primavera Araba”, ma in particolare in Georgia, Ucraina e Kyrgyzstan) con l’obiettivo di promuovere il “cambio di regime”, istigare controversie regionali e persino lanciare direttamente guerre con il pretesto di promuovere la democrazia, la libertà e i diritti umani.

Aggrappandosi alla mentalità della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno intensificato la politica dei blocchi e alimentato conflitti e scontri.

Hanno esagerato con il concetto di ‘sicurezza nazionale’, hanno abusato dei controlli sulle esportazioni e imposto sanzioni economiche unilaterali agli altri (le sanzioni statunitensi contro entità straniere sono aumentate del 933% dal 2000 al 2021 e colpiscono quasi 40 paesi in tutto il mondo, tra cui Cuba, Cina, Russia, Repubblica Popolare di Corea, Iran e Venezuela, colpendo quasi la metà della popolazione mondiale).

Hanno adottato un approccio selettivo al diritto e alle regole internazionali, utilizzandole o scartandole a loro piacimento, e hanno cercato di imporre regole che servano i propri interessi in nome del mantenimento di un “ordine internazionale basato su regole“.

Tuttavia, più che effettivamente smascherare gli specifici tratti dell’egemonia statunitense, l’obiettivo del saggio sembra essere quello, certamente non nuovo, di accattivarsi una audience tanto globale quanto specifica: quel gruppo più o meno ampio di Paesi, soprattutto del Global South, insofferenti verso Washington (molti dei quali si sono astenuti nelle votazioni nell’Assemblea Generale dell’ONU sulla risoluzione rispetto alla guerra in Ucraina).

Infatti, la conclusione del documento afferma che “I paesi devono rispettarsi a vicenda e trattarsi da pari a pari. I grandi Paesi dovrebbero comportarsi in modo consono al loro status e prendere l’iniziativa nel perseguire un nuovo modello di relazioni tra Stato e Stato caratterizzato dal dialogo e dalla partnership, non dallo scontro o dall’alleanza. La Cina si oppone a tutte le forme di egemonismo e politica di potere e rifiuta l’ingerenza negli affari interni di altri paesi. Gli Stati Uniti devono condurre un serio esame di coscienza. Devono esaminare criticamente ciò che hanno fatto, abbandonare la loro arroganza e il loro pregiudizio e abbandonare le loro pratiche egemoniche, di dominio e prepotenti”.

La Global Security Initiative

La GSI  è stata presentata come articolazione diretta del pensiero di Xi Jinping (eletto per un terzo mandato segretario del PCC, ma anche presidente della Commissione militare centrale e presidente della RPC ad ottobre 2022) e costituisce una sorta di documento paradigmatico, filosofico-fondativo, della visone cinese delle relazioni internazionali.

La GSI vuole essere il “piano” del governo cinese volto a garantire la sicurezza globale davanti alle molteplici sfide e ai grandi rischi che la comunità internazionale si trova da affrontare.

La GSI mira a eliminare le cause profonde dei conflitti internazionali, migliorare la governance della sicurezza globale, incoraggiare sforzi internazionali congiunti per portare maggiore stabilità e certezza in un’era instabile e mutevole e promuovere una pace e uno sviluppo durevoli nel mondo.

Nel documento si dichiara che il cardine del sistema deve essere il rispetto e l’implementazione dei dettami della Carta delle Nazioni Unite (1945) e dei dieci principi della Conferenza di Bandung degli Stati africani e asiatici tenutasi nel 1955.

L’ONU è l’organismo multilaterale su cui avrebbe dovuto strutturarsi l’ordine post-Seconda guerra mondiale in alternativa all’unilateralismo e alle sue manifestazioni (come il protezionismo) che la Cina oggi imputa agli Stati Uniti.

Il tema della mentalità “win-win”, centrale nella narrazione legata alla cooperazione nel contesto della Belt and Road Initiative, viene declinato nel documento come risposta necessaria a quella che è la diagnosi di Pechino sulle fonti profonde di (in)sicurezza della comunità internazionale: una serie di sfide comuni che si intersecano richiedendo non solo soluzioni concertate, ma anche e soprattutto rispetto delle preoccupazioni di sicurezza di tutti i membri della comunità, della sovranità e integrità territoriale, e della non interferenza come principi fondativi delle relazioni internazionali.

Ma l’aspetto forse più interessante è quello che la Cina sottolinei come preoccupazione principale della sicurezza internazionale la necessità di evitare una mentalità da guerra fredda.

L’idea di un sistema diviso in blocchi di potenza in cui, secondo il documento cinese, viene necessariamente meno il riconoscimento delle legittime preoccupazioni altrui e comporta una perdita netta per la comunità internazionale (“La mentalità della guerra fredda, l’unilateralismo, il confronto dei blocchi e l’egemonismo contraddicono lo spirito della Carta delle Nazioni Unite e devono essere contrastati e respinti”.).

In sostanza, l’approccio cinese propone “un nuovo modello di relazioni tra Stati basato su dialogo e partnership”, non-interferenza e rifiuto della politica di egemonia direttamente contrapposto al modello di “scontro e alleanze” e politica di potenza degli Stati Uniti.

Sei sono i concetti e principi fondamentali interconnessi della GSI:

1. Rimanere impegnati nella visione di una sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile;

2. Restare impegnati a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale di tutti i paesi (uguaglianza sovrana e non interferenza negli affari interni come principi fondamentali del diritto e delle relazioni internazionali);

3.Restare impegnati a rispettare e attuare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite (“praticare un vero multilateralismo” e “sostenere fermamente il sistema internazionale con l’ONU al centro … e il suo status di piattaforma principale per la governance della sicurezza globale”.);

4. Restare impegnati a prendere sul serio le legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi;

5. Rimanere impegnati a risolvere pacificamente le differenze e le controversie tra i paesi attraverso il dialogo e la consultazione;

6. Rimanere impegnati a mantenere la sicurezza sia nei domini tradizionali che in quelli non tradizionali (“lavorare insieme per affrontare le controversie regionali e le sfide globali come il terrorismo, i cambiamenti climatici, la sicurezza informatica e la biosicurezza”).

Per realizzare la visione contenuta nella GSI, la Cina è pronta ad impegnarsi nella cooperazione sulla sicurezza bilaterale e multilaterale con tutti i paesi e le organizzazioni internazionali (soprattutto in sede ONU) e regionali e nel promuovere attivamente il coordinamento dei concetti di sicurezza e la convergenza degli interessi.

Con la GSI, seguendo il principio di apertura e inclusività, la Cina accoglie con favore e si attende la partecipazione di tutte le parti per arricchire congiuntamente la sua sostanza ed esplorare attivamente nuove forme e aree di cooperazione. “La Cina è pronta a lavorare con tutti i paesi e i popoli che amano la pace e aspirano alla felicità per affrontare tutti i tipi di sfide alla sicurezza tradizionali e non tradizionali, proteggere la pace e la tranquillità della terra e creare insieme un futuro migliore per l’umanità, in modo che la fiaccola della pace sarà trasmessa di generazione in generazione e risplenderà in tutto il mondo”.

Un nuovo ordine mondiale post-occidentale?

Mentre alcuni dei più grandi paesi in via di sviluppo, come Cina, Brasile, India, Messico, Indonesia e Sud Africa, si allontanano dalla dipendenza dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali, hanno iniziato a discutere una nuova architettura per un nuovo ordine mondiale.

Ciò che è abbastanza chiaro è che la maggior parte di questi paesi, nonostante le grandi differenze nelle tradizioni politiche dei rispettivi governi, ora riconoscono che l’”ordine internazionale basato sulle regole” degli Stati Uniti non è più in grado di esercitare l’autorità che aveva una volta.

L’effettivo movimento della storia mostra che l’ordine mondiale si sta spostando da uno ancorato all’egemonia degli Stati Uniti a uno di carattere molto più regionale. I politici statunitensi, come parte del loro allarmismo, suggeriscono che la Cina voglia conquistare il mondo, sulla falsariga dell’argomento della “Trappola di Tucidide“, secondo cui quando un nuovo aspirante all’egemonia appare sulla scena, tende a sfociare in una guerra tra i paesi emergenti e la grande potenza esistente.

Tuttavia, questa argomentazione non si basa sui fatti. Nessuno Stato-nazione è oggi in grado di organizzare l’ordine globale e mantenerne il controllo in maniera unilaterale.

Piuttosto che cercare di generare ulteriori poli di potere – sulla scia degli Stati Uniti – e costruire un mondo “multipolare“, la Cina e i paesi in via di sviluppo chiedono un ordine mondiale “multilaterale” radicato nella Carta delle Nazioni Unite, nonché forti sistemi di sviluppo e commercio regionale (BRICS, SCO, CELAC, ecc.).

Un nuovo internazionalismo che può essere creato – evitando un periodo di balcanizzazione globale – solo costruendo sulle fondamenta del rispetto reciproco e della forza dei sistemi commerciali regionali, delle organizzazioni di sicurezza e delle formazioni politiche.

Indicatori di questo nuovo atteggiamento sono presenti nelle discussioni in corso nel Sud del mondo sulla guerra in Ucraina e si riflettono nella GSI e nel piano cinese per la pace in Ucraina.

Un partner strategico della Cina di Xi in questo percorso è destinato ad essere il Brasile di Lula che potrebbe raggruppare una serie di paesi latino-americani (di una regione tradizionalmente sotto l’influenza degli Stati Uniti, in linea con la “dottrina Monroe” del 1823 per svolgere sulla scena globale quel ruolo di mediazione/accompagnamento di un nuovo ordine globale per il quale l’Unione Europea ha completamente abdicato.

Il 26-31 marzo Lula avrebbe dovuto essere a Pechino con una foltissima delegazione di ministri, governatori, deputati, senatori e oltre 250 imprenditori (molti dei quali dell’agrobusiness e dell’allevamento da carne), ma ha rinviato il viaggio per un attacco di polmonite. In ogni caso, Lula ha confermato la volontà di mantenere ottimi rapporti con la Cina.

D’altra parte le relazioni economiche tra i due paesi si sono notevolmente intensificate negli ultimi anni e la Cina è già il più grande mercato di esportazione del Brasile, con un commercio bilaterale che ha superato i 155 miliardi di dollari nel 2022 (contro gli 88 con gli USA), con il Brasile che principalmente esporta in Cina prodotti come soia, ferro e suoi derivati, petroliferi e carni bovine.

Il Brasile è oggi il maggior destinatario di investimenti cinesi in America Latina, trainati dalla spesa per linee di trasmissione elettrica ad alta tensione e per l’estrazione di petrolio. Lula (come Xi) ha bisogno di contare su un’economia in buona salute per riprendere quelle politiche sociali e di attenuazione della povertà che avevano rappresentato la parte più significativa dei suoi due precedenti mandati (2003-2011).

Politiche interne completamente abbandonate, come quelle contro la deforestazione in Amazzonia e nel Cerrado, e il cambiamento climatico, con la disastrosa presidenza di Bolsonaro. È quindi possibile un asse Brasile-Cina, attorno al quale possano aggregarsi altri paesi come Sudafrica e Colombia o dell’Africa (Nigeria), Medio Oriente (Turchia, Iran e paesi del Golfo), dell’Asia (Indonesia, Malaysia, Filippine e Vietnam) e delle isole del Pacifico.

Gli Stati Uniti rimangono un paese potente, ma non hanno fatto (e sembrano non volerlo fare) i conti con gli immensi cambiamenti in atto nell’ordine mondiale. Persiste la loro ricerca del primato globale (il progetto suprematista neoconservatore ideato da Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell, Paul Wolfowitz, Scooter Libby e Zalmay Khalilzad, secondo cui non ci deve più essere una potenza straniera che possa competere con gli Stati Uniti), di essere il poliziotto del mondo, e come ha scritto lo storico Daniel Bessner sulla rivista Harper’s Magazine l’anno scorso, decenni di egemonia militare globale statunitense hanno conferito agli Stati Uniti “una cultura politica militarizzata, razzismo e xenofobia, forze di polizia armate fino ai denti con armi di qualità, un budget per la difesa gonfio e guerre senza fine”.

Il potere degli Stati Uniti sta incontrando una resistenza crescente in tutto il mondo e Washington desidera contrastarla quasi tutta, ovunque, continuando a confondere la proiezione del potere degli Stati Uniti con gli interessi americani, cercando ancora di sopraffare i rivali ed evitare di frenare le loro ambizioni.

I risultati sono stati abbastanza disastrosi durante il “momento unipolare” degli Stati Uniti. Ora, contro le grandi potenze armate di armi nucleari come Russia e Cina, potrebbero essere molto peggiori e mettere a rischio la vita umana sul pianeta. Inquadrando la guerra in Ucraina come una lotta tra democrazia e autocrazia, Biden mostra che gli Stati Uniti non hanno imparato la lezione dell’Iraq.

Dovrebbero temperare la loro fede nel loro “destino manifesto“ e finalmente riconoscere che gli Stati Uniti non sono altro che un altro paese tra i 193 Stati membri delle Nazioni Unite. Nel nuovo mondo multipolare e multilaterale, le grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, o troveranno modi per adattarsi e cooperare per il bene comune dell’umanità e un futuro condiviso, o rischieranno la marginalizzazione e un innalzamento della conflittualità, polarizzazione e frammentazione politica interna.

Quello che appare certo è che la Cina sta cercando di dare una risposta ai cambiamenti del mondo, dei nostri tempi e dei processi storici in atto. I suoi detrattori sostengono che sia tutta propaganda ad esclusivo vantaggio della Cina, del governo comunista e del suo leader.

La Cina da sola non è in grado di bloccare e invertire la spinta verso una nuova conflittualità globale, anche per il carattere autoritario del proprio regime e per il mantenimento di rapporti anche con regimi di dubbia legittimità (una scelta conseguente al rifiuto di ingerenze nelle vicende interne dei singoli paesi, ma che rischia di essere vista, come ha notato a ragione Franco Ferrari, come una difesa assoluta dello status quo).

In ogni caso, solo il tempo dirà se e come la Cina di Xi sarà davvero in grado di promuovere praticamente un nuovo ordine internazionale alternativo “democratico” (“l’altro mondo possibile” di cui aveva parlato il movimento per la giustizia globale all’inizio del millennio?), e un nuovo tipo di relazioni con il Sud globale.

Fonte: Contropiano

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