Asst Sette Laghi
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“Demotivati, stanchi e insofferenti: ecco perché gli infermieri scappano dall’ospedale Asst Sette Laghi”

Una lunga riflessione da parte di un sanitario dell’Asst Sette Laghi che parla di criticità nel lavoro e nell’offerta accademica. Un contributo che vuole aprire un confronto sulla professione.

Spett.le Direttore,
sono un’infermiera/infermiere qualsiasi che lavora in uno dei due nosocomi cittadini di Varese e vorrei cogliere l’occasione gentilmente offertami dal vostro quotidiano, per fare delle considerazioni sulla continua fuga di infermieri dalla ASST. 

Prima di procedere, vorrei sia chiaro che la seguente dissertazione è una personale considerazione che non è assolutamente espressione ufficiale degli enti istituzionali che rappresentano la categoria a cui appartengo.

Come ben sapete, la situazione della sanità pubblica in era post-pandemica è parecchio critica e richiede interventi urgenti per non arrivare al collasso di un sistema che, sulla carta, ci invidiano nel resto del mondo. 

Per me farne parte era motivo di orgoglio, perché l’universalismo, l’equità e l’uguaglianza delle cure, nel processo di assistenza alle persone, sono principi fondamentali e inviolabili che si allineano al mio personale bagaglio di valori etici e morali. 

Parlo al passato, perché, attualmente, non ci sono le condizioni, che siano esse economiche, logistiche e organizzative, per potermi esprimere come il/la professionista della salute che vorrei essere.

Non è tutto ora quel che luccica.

Spesso e volentieri, chi tratta di questo argomento, (spesso non infermieri) adduce la “mancanza di motivazione” come causa principale dell’esodo dei nostri infermieri, neolaureati e non, verso destinazioni estere come Svizzera, Norvegia e, fuori dai confini europei, paesi come gli Emirati Arabi Uniti.

Posso assicurare che molti dei giovani che ho affiancato, la motivazione ce l’hanno e io l’ho rinforzata, coi miei limiti!

Ma hanno anche capacità di osservazione e comprensione dell’ambiente che li circonda e, quando mettono piede in reparto, vedono infermieri oberati di lavoro, stanchi, frustrati, che non riescono ad affiancare come meriterebbero (visto che pagano fior fiore di tasse e si ritrovano, gratuitamente, a fare lavori di bassa manovalanza con la scusa del dover “fare la gavetta”).

Infermieri stanchi, cinici e insofferenti, continuamente aggrediti da parenti e pazienti, che si lamentano degli stipendi, inadeguati al carico di lavoro a cui sono sottoposti e con delle tassazioni al limite della follia, delle attrezzature, insufficienti in numero, che, anziché venire sostituite, vengono riparate malamente, locali mal progettati.

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E l’elenco può continuare. E non sto parlando di un ospedale di periferia, ma del centralissimo “Circolo” di Varese.

La situazione negli ospedali di periferia non è certamente migliore.

Sono fiducioso e sicuro che chi di dovere abbia dei progetti, delle idee per poter lavorare sulla motivazione dei giovani; ma su quella di chi giovane non è più?

Oltre alla motivazione, si parla di “passione” e “vocazione” come tratti peculiari delle professioni della salute. 

Sono d’accordo, anche se preferisco parlare di attitudine, perché questi termini vengono confusi e associati al mondo del volontariato e dei missionari, a cui va tutta la mia stima, ma non tiene conto delle nostre capacità e competenze tecniche, che si sono evolute nei decenni. 

Con la passione non ci si paga le bollette e non si arriva alla fine del mese.

Con questa mentalità, in nome della passione, della “vokazioneh!”,gli infermieri continueranno ad essere indottrinati al demansionamento, argomento molto spinoso e ignorato, ma che conta circa 70 cause vinte da infermieri che hanno denunciato in tutta Italia; ignorato dai miei stessi colleghi che per il bene della persona (o dell’azienda?) fanno anche 2-3 lavori in 1.

Poi ci sono i vertici aziendali e i docenti infermieri dell’Università, che, forti di un retaggio ecclesiastico anacronistico, al primo anno preferiscono insegnare come rifare bene un letto, eseguire l’igiene del malato, dedicando un intero anno di insegnamenti in assistenza di base (per il bene del paziente!).

Ma perché non lo insegnano anche ai fisioterapisti o ai medici? Anche loro lavorano per il bene del paziente.

Competenze che, per legge e profilo professionale, spetterebbero a ben altre figure; così facendo, non otterremo mai i riconoscimenti sociali e non di cui tanto si parla da quando, durante la pandemia da COVID-19, eravamo considerati eroi, angeli.

Ora veniamo pestati selvaggiamente, ci togliamo la vita (perché sappiamo come farlo) nell’indifferenza delle istituzioni politiche e della società.

Il nostro ateneo è stato inserito dal Censis tra i primi dieci per la qualità della didattica nelle professioni sanitarie.

L’ateneo sicuramente, non il Corso di Laurea in infermieristica, e parlando con gli studenti dei vari anni di percorso, soffre di importanti carenze organizzative, logistiche e strutturali.

Sarebbe interessante sentire la loro voce, fare degli incontri in cui poter affrontare serenamente queste problematiche, senza paura di ripercussioni.

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I nostri studenti LAVORANO, non vengono a scaldare le sedie.

Tuttavia non viene loro corrisposta alcuna retribuzione, come succedeva ai tempi delle Scuole Regionali e, prima ancora, delle Scuole Convitto.

Nel resto d’Europa gli studenti ricevono un vero e proprio stipendio, progressivamente più alto in base all’anno di corso, ovviamente. Qua fanno beneficienza.

Senza contare che non hanno diritto a un pasto (del resto li prepariamo già a quello che sarà il nostro lavoro) o nessuna agevolazione per il parcheggio (non tutti abitano in città o possono usufruire dei mezzi pubblici).

E stiamo qua a chiederci perché nessun giovane vuole esercitare questa professione, perlomeno in Italia? Sul serio?

E dei problemi quotidiani che devono sopportare in università?

Aule glaciali, controsoffitti che marciscono in attesa di cadere in testa a qualcuno.

Distributori di bevande e snack malfunzionanti, aule ristoro insufficienti che costringono gli studenti a mangiare freddo, sedie fatiscenti.

Una segreteria sorda ad ogni richiesta degli studenti che, ricordiamolo, pagano cospicue tasse non corrisposte da un servizio altrettanto efficiente.

E se accusiamo questi giovani di non voler vivere soltanto per lavorare, “perché si è sempre fatto così“ dobbiamo fermarci a riflettere un attimo.

E con l’arrivo degli infermieri sudamericani, ci si auspica che i giovani rimangano in Lombardia, con anche l’istituzione di corsi di aggiornamento. Ma per chi? Solo per i sudamericani?

Quali sono gli scenari che si prospettano a chi studia a Varese?

L’ateneo bosino cosa offre a un infermiere neolaureato come corso post-lauream?

Da anni c’era solamente il Master di I livello per “Infermiere di sala operatoria” (in quanto afferente all’attività interventistica chirurgica) a cui si aggiunge, solo recentemente, perché voluto a livello nazionale, quello in “Infermieristica e ostetricia di famiglia e comunità e case/care management dei processi socio-sanitari”, che ha formato i cosiddetti “Infermieri di Famiglia”.

Nient’altro. Eppure le specializzazioni esistono anche in ambito infermieristico.

Il nostro ateneo non offre molte possibilità di specializzazione ad un infermiere che, se volesse proseguire i propri studi, che siano magistrali o di dottorati, deve spostarsi, anche di molto.

E le 150 ore (permesso studio) messe a disposizione sono decisamente insufficienti, se contiamo i continui salti riposi, turnistica per nulla agevolante, l’obbligatorietà delle lezioni e del tirocinio formativo, magari anche non nel nostro ospedale.

Perché la Scuola di Medicina non si adopera affinché vengano aperti un corso magistrale o altri master?

Forse per paura delle competenze avanzate degli infermieri?

Eppure l’Ateneo, l’Azienda (quando si ricorda) si vanta sempre dei propri infermieri.

È una provocazione questa, sarebbe un controsenso?

Un medico ha più possibilità di formarsi a Varese, questo, mi sento di dire, è un dato di fatto.

Per chi anche non volesse proseguire gli studi, ciò che l’Azienda offre, in termini di corsi d’aggiornamento, non è sufficiente e, spesso e volentieri, destinato a particolari categorie di professionisti e non aperti a chi, anche solo per curiosità personale, vorrebbe parteciparvi.

E per lo più sono rivolti ai medici o ai professionisti dell’area critica.

Un altro problema è che la stessa dirigenza infermieristica ignora le richieste degli infermieri che vorrebbero cambiare reparto, spesso ci troviamo infermieri con master (che ricordo essere autofinanziati) in area critica che lavorano in una psichiatria, geriatria o oncologia…

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Infermieri ormai senza stimoli. 

Un professionista o si adegua, appiattendo la propria professionalità e umanità, o va alla ricerca di chi sa adeguatamente ricompensare e riconoscere le competenze personali. 

Le attitudini del singolo professionista vengono ignorate, perché l’azienda di questo ha bisogno. “Non ti va bene? Quella è la porta”.

La mia amara conclusione a riguardo è che, sia i giovani italiani, sia quelli sudamericani, una volta viste le condizioni in cui versiamo oggigiorno, scapperanno se non saremo in grado di rendere attrattiva una professione che di per sé è magnifica, gratificante, dall’enorme potenziale.

Ma queste sono le ennesime parole che rimarranno inascoltate, tanto il destino della nostra sanità, una volta si parlava di eccellenza lombarda, è già segnato.

Forse, dopotutto, è vero: ci vuole motivazione per fare questo lavoro, in queste ingrate condizioni.

Motivazione e un pizzico di masochismo. Io continuerò fino all’ultimo giorno, con lo stesso entusiasmo del primo coi miei pazienti, ma, nel profondo, deluso e amareggiato.

Ringrazio la redazione e il lettore che è arrivato fin qui per l’attenzione dedicatami, sperando di suscitare un sano e costruttivo dibattito tra cittadini e istituzioni.

Un infermiera/infermiere qualsiasi.

Fonte: varesenews

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