Risarcimento
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Maxi risarcimento da 73 mila euro alla sanitaria no-vax sospesa e discriminata.

Analisi dell’Importanza Legale per i Diritti Umani della Nuova Ordinanza Zanda.

di avv. Maurizio Giordano

La recentissima ordinanza depositata dal Giudice Susanna Zanda a favore di una sanitaria non vaccinata e contro l’azienda per cui lavora ha un’importanza davvero notevole perché segna un cambio di passo nella battaglia per l’emersione della verità e per la tutela effettiva dei diritti sanciti dalla Costituzione, in primis quello alla libertà di cura e alla propria integrità psico-fisica previsto dall’art. 32.

Mi riferisco all’obbligo vaccinale anti-covid imposto ai sanitari e ad altre categorie sociali dall’art. 4 del Decreto Legge 44/2021 basato su un palese falso scientifico ovvero che questi vaccini proteggano dall’infezione e dal contagio del virus SarsCov2.

Fino ad oggi infatti gli avvocati avevano basato i loro ricorsi contro le sospensioni dal lavoro e dallo stipendio di coloro che si erano rifiutati di sottoporsi a tale trattamento sanitario cercando di dimostrare “l’illegittimità” di tale norma, dal momento che non poggiando su alcun reale fondamento scientifico non poteva avere alcuna funzione “solidaristica” di protezione della salute pubblica ai sensi dell’art. 3 della Costituzione.

Purtroppo, salvo sporadiche eccezioni a macchia di leopardo, tale strada si è rivelata un vicolo cieco, poiché il datore di lavoro eccepiva puntualmente di aver solo applicato la legge, mentre la maggioranza dei giudici accoglieva tale tesi senza neppure sollevare un’eccezione di legittimità di fronte alla Corte Costituzionale.

E anche quando ciò è stato fatto, sappiamo bene come è andata a finire con le ben note sentenze 14-15-16 depositate a febbraio del corrente anno in cui sostanzialmente la Corte ha ritenuto non irragionevole né sproporzionata l’imposizione di un obbligo vaccinale.

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Il problema era di fatto insolubile perché il giudice è tenuto ad applicare legge “anche se ritenuta ingiusta”, mentre la legge può essere abrogata solo dal Parlamento o dalla Corte Costituzionale.

Poi l’intuizione geniale degli avvocati Tiziana Vigni e Gianmaria Taraldsen che hanno difeso la sanitaria in questione: utilizzare la normativa anti-discriminazione introdotta in Italia dal Decreto Legislativo 216 del 2003 in attuazione della Direttiva Comunitaria 2000/78/CE sulla parità di trattamento sul lavoro indipendentemente da motivi di sesso, razza, religione, orientamento sessuale e “opinioni personali”.

Tale disciplina tutela il lavoratore non soltanto dalla discriminazione diretta, ma anche dalla quella “indiretta” che sia conseguenza di un provvedimento (dunque anche una legge) apparentemente neutra che metta alcune persone in una situazione di svantaggio rispetto alle altre.

Tale principio peraltro è sancito a chiare lettere proprio dall’art. 3 della Costituzione (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) ed è affisso in tutte le aule di giustizia (la legge è uguale per tutti).

Insomma la soluzione è sempre stata sotto gli occhi di tutti.

L’errore è stato considerare soltanto un aspetto della legge ovvero la sua obbligatorietà trascurando l’altro aspetto ovvero quello della sua uniformità di applicazione.

Qual è il vantaggio dell’applicazione di questa disciplina?

Che prescinde dal fatto che la discriminazione sia imposta da una legge. 

Se una legge produce una discriminazione nei confronti di un lavoratore, tale legge va disapplicata mentre quest’ultimo deve essere risarcito per il danno arrecato “anche non patrimoniale” indipendentemente dal profilo di responsabilità del datore di lavoro.

Ciò che conta è unicamente la conseguenza “discriminatoria”, non l’intenzionalità o la colpa.

La competenza a giudicare sulla condotta discriminatoria è attribuita dall’art. 28 del Decreto Legislativo 150 del 2011 in via esclusiva ed inderogabile al Giudice Ordinario “anche quando la natura del bene tutelato preveda la competenza del foro della Pubblica Amministrazione”.

Ciò è confermato in modo inequivocabile dalla recente sentenza della Corte di Cassazione Civile a Sezioni Unite 36373/2021.

Infatti l’importanza della tutela antidiscriminatoria – ricorda a margine la dott.ssa Zanda – consiste proprio nel valore centrale della dignità umana e dell’uguaglianza (inteso come parità di trattamento) sia nella Costituzione che nelle Carte dei Diritti Internazionali (come la carta di Nizza, Cedu, TFUE) perché è proprio dalla discriminazione che nascono i totalitarismi.

Risarcimento. Il Classico Elefante nella Stanza che nessuno vede… 

Un ulteriore vantaggio è che tale disciplina consente al lavoratore l’utilizzo della prova “di fatto” desunta anche da dati di carattere statistico, istituendo un’inversione dell’onere della prova per cui spetta al datore di lavoro, ai sensi dell’art. 28 del Decreto Legislativo 150/2011, provare l’insussistenza della discriminazione.

L’unico punto critico è rappresentato dall’art. 3 comma 2 del Decreto Legislativo 216/2003 nel punto in cui sono previste delle “clausole di salvaguardia”, tra cui la protezione sociale e la tutela della salute.

Spetta però al datore di lavoro dimostrare che la discriminazione fosse giustificata da tali motivazioni.

Nel caso specifico la dott.ssa Zanda esclude giustamente che la prova “autoreferenziale” possa essere considerata una giustificazione valida.

Tra gli elementi autoreferenziali vi sono sia la stessa legge che le attestazioni dell’ISS sull’efficacia dei vaccini.

Tali ultime attestazioni sono infatti sconfessate dalla copiosa documentazione prodotta dal lavoratore, tra cui il Report dell’Inail del 31/08/2021, che dimostra come “l’imposizione vaccinale – non impedendo né il contagio che la trasmissione – non possa in alcun modo essere giustificabile da un “inesistente” interesse pubblico o funzione solidaristica”.

Aggiunge inoltre il Giudice che “la protezione personale del lavoratore, qui comunque esclusa dai dati appena richiamati, è una questione personale che nessun datore di lavoro potrebbe imporre ad una persona sana”.

Pertanto la giustificazione dell’Azienda Sanitaria di aver applicato la legge dello Stato e di non essere né in dolo né in colpa è irrilevante.

Infatti il Giudice deve applicare la tutela inibitoria (disapplicando la legge) e risarcitoria contro la discriminazione indifferentemente che sia posta in essere da privato, dalla Pubblica Amministrazione o ancora venga attuata mediante la legge. (Cass. 3842/2021 e Cass. Sez. Lavoro 3963/2017.

A conclusione del commento a questa mirabile ordinanza non si può che applaudire l’approccio vincente intrapreso dai Colleghi che hanno difeso la sanitaria in questione, i quali hanno avuto a mio parere un’intuizione geniale: ovvero che non ci si dovesse intestardire sulla legittimità dell’art. 4 del Decreto Legge 44/2021 introduttivo dell’obbligo vaccinale anti-covid, bensì che occorresse concentrarsi invece sugli effetti discriminatori prodotti.

Il classico elefante nella stanza che nessuno vede perché è improbabile che possa trovarsi lì. Chapeau!

Avv. Maurizio Giordano
Avvocato iscritto all’albo degli avvocati di Torino

Fonte: gospanews

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