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Internet: Viaggio nell’inferno invisibile della rete

Data center, cavi, impatto ecologico e guerre geopolitiche: come e perché scoperchiare la realtà materiale di internet secondo Guillaume Pitron.

L’elefante nella stanza è un enorme palazzo senza finestre.

Un centro di elaborazione dati come quello dell’azienda Equinix ad Amsterdam, un parallelepipedo striato, o quello di Facebook a Luleå, nel nord della Svezia, allungato tra gli alberi al limite del circolo polare artico.

Sono immensi data center che trasmettono e archiviano i dati che ci scambiano online.

Moltiplichiamo le stanze, i server, i cavi, le ventole di raffreddamento, per immaginare un unico data center che contenga tutti i bit che l’umanità produce.

Una nuova versione della biblioteca di Babele immaginata da Borges: 5 exabyte per giorno, 47 zettabyte nell’anno 2020 (per intenderci, uno zettabyte sono mille exabyte, un exabyte è un miliardo di gigabyte).

Una breve e-mail pesa solo un kilobyte e se un’email fosse mezzo bicchiere d’acqua allora quei 47 zettabyte di flusso annuo di dati sarebbero come il mar Mediterrano e il mar Nero assieme: una marea.

Ma la produzione dei dati aumenta e si stima che nel 2030 arriveremo a 612 zettabyte all’anno.

Attraverso questa marea si fa strada un solitario like, che qualcuno mette a un post di qualcun altro, e che da un telefono raggiunge l’antenna dell’operatore, quindi percorre i cavi che portano ai locali tecnici dell’operatore, da lì sempre via cavo attraversa suolo e mare per arrivare a quei grandi data center, allora rifà la strada all’inverso, verso il telefono di chi sta cercando di vedere quanti nuovi like ci siano sul suo post.

Questi dati ridiscutono il nostro rapporto con lo spazio, scrivono geografie: si muovono lungo precise rotte, attraversano effettivamente cavi e abitano fisicamente server.

Inferno digitale racconta la rete in termini di cavi, data center, gas, rotte commerciali e attori geopolitici; internet diventa una presenza ingombrante in una rete molto fisica di interessi e risorse.

Dietro a questo andirivieni si è messo Guillaume Pitron che l’ha raccontato nel suo Inferno digitale, uscito per LUISS University Press nella traduzione di Ondina Chirizzi.

Pitron è un giornalista d’inchiesta e documentarista che si occupa soprattutto di materie prime.

Già nel 2019 era uscito in Italia il suo La guerra dei metalli rari, un’inchiesta sullo sfruttamento delle terre rare, materie cruciali anche per il digitale.

“Sono anzitutto un giornalista, non un accademico e quello che mi interessa è il lavoro sul campo”, mi racconta Pitron. 

Inferno digitale è dunque una somma di queste esperienze, lungo il fiume Luleälven che alimenta i server lapponici di Facebook, davanti all’oceano di Leixões in Portogallo mentre si posano i cavi, tra le discariche di scarti di grafite in Cina nella provincia dell’Heilongjiang.

“Ma oltre a ciò, c’è stato anche un ampio lavoro di studio su cui ha lavorato una decina di persone, una parte di ricerca estremamente importante, nutrita di interviste”.

Nel data center svedese di Facebook

riposa la mia ultima fotografia postata su Instagram ed è per questo che mi è sempre accessibile anche se non è salvata sul mio smartphone.

La nuvola di dati non esiste davvero, ogni informazione viene depositata da qualche parte.

Uno dei dogmi di internet è la sua continuità e accessibilità assoluta.

Quando questa si interrompe è il panico.

Nel suo libro Pitron racconta che per salvaguardare l’accessibilità continua dei dati, i data center sono duplicati, assicurandosi addirittura che il sito mirror (la copia “di sicurezza” di quello davvero utilizzato) si trovi su una placca tettonica diversa.

In questo accumulo mostruoso di dati, il loro possesso ci sfugge.

Chi li detiene?

Persino le app per lo sharing dei monopattini, spiega Pitron, raccolgono una grande quantità di dati, per trasmetterli ad altri per scopi commerciali, e per raccogliere informazioni vitali sulle abitudini di mobilità: sembra bastino “quattro punti spazio-temporali (…) per identificare il 95% delle persone”.

Questa massa di dati e l’infrastruttura su cui viaggia ha e produce un’impronta ecologica – sul Tascabile Alessio Giacometti ne aveva scritto in modo approfondito: il digitale usa il 10% dell’energia elettrica globale che per il 35% è prodotta col carbone.

Dunque anche un’email con un allegato ha un’impronta carbonica: emette come una lampadina accesa per un’ora.

“Un solo ciclo di training linguistico di un algoritmo arriva invece a inquinare come cinque automobili termiche lungo il loro intero ciclo di vita”, aggiungeva Giacometti.

Agli algoritmi affidiamo anche il trading finanziario ad alta frequenza tanto che il fondo DKV ha deciso di nominare un robot, Vital, nel consiglio di amministrazione, come Caligola col suo cavallo.

Il digitale è come l’universo:

in espansione; e c’è anche il mining dei bitcoin che, come precisava ancora Giacometti, “non è altro che l’energia impiegata per produrre” moneta digitale.

A peggiorare questo inquinamento sono le emissioni di particolari gas, i gas fluoranti, che servono per refrigerare i server e che però nell’atmosfera hanno una forza riscaldante di gran lunga superiore alla CO2.

In una società super-informata paradossalmente non sappiamo nulla sul reale funzionamento delle nostre tecnologie.

Indagando la portata della presenza materiale di internet, Guillaume Pitron ne stana l’impalcatura.

Descrive come le grandi aziende, le GAFAM – Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – somiglino alle aziende petrolifere che deterritorializzano le loro attività lontano dagli sguardi e lavorano in zone circoscritte (lo chiamano “capitalismo zonale”).

Google “impone clausole di riservatezza molto rigide ai comuni dove si insedia”,  mentre “Amazon moltiplica silenziosamente le proprie data farm sotto la copertura di società chiamate Vadata Inc. o Vandalay Industries”.

Intanto la Cina si muove sistemicamente e dispone nuove rotte di cavi per emanciparsi dalla rete occidentale: è il PEACE, Pakistan and East Africa connecting Europe.

E lo scioglimento dei ghiacci artici apre spazi per nuovi percorsi sottomarini a nord.

Attorno a questa immensa infrastruttura ronzano in un intrico proprietari dei cavi, produttori, armatori, squali che mordono cavi, pescatori stufi di condividere zone di pesca con le navi posacavi.

La presenza materiale del digitale è anche la sua rete estrattiva e le nuove materie prime di cui necessita.

Questo peso che a noi pare impalpabile ricade allora sulla “regione geografica più a monte nella filiera di produzione”.

Alla fine invece dell’intero ciclo ci sono gli scarti: come i nostri telefoni presto invecchiati, o il milione di circuiti ottici in disuso sui fondali del mare, o ancora i dati di persone morte che trasformano i cloud in cimiteri.

Inferno digitale 

ricostruisce questo intero girone con minuzia, pezzo dopo pezzo: materie prime, cavi, data center, smartphone, gas, rotte commerciali e attori geopolitici.

Internet diventa una presenza ingombrante in una rete molto fisica di interessi e risorse.

Dopo la lettura dell’inchiesta raggiungo Guillaume Pitron per approfondire alcuni temi del libro.

Una cosa a cui forse pensiamo troppo poco è come sono fatti gli strumenti, le tecnologie che usiamo tutti i giorni.

Un martello è una tecnologia evidente.

Certo, i percorsi dei materiali che lo compongono possono essere intricati, magari la testa del martello che ho a casa è fatta di un particolare metallo che ha attraversato una filiera di produzione globale e complessa, ma quel martello so a cosa serve e il suo funzionamento è evidente.

Davanti a un orologio o a un motore la mia comprensione già si complica.

Davanti a un telefono non ho alcuna idea del suo effettivo e materiale funzionamento, della sua storia, delle parti che lo compongono, della loro provenienza.

La sua superficie è limpida e la so usare, e infatti la sua usabilità è più o meno semplice, ma non ho idea di cosa ci stia dietro.

Quella delle tecnologie energetiche e informatiche che ci hanno accompagnato finora è una storia di complessificazione delle tecnologie.

Le hi-tech 

sono sempre più complesse, potenti, efficienti e sono composte da un numero sempre maggiore di risorse.

Servono più materiali per fabbricarle, da un lato perché ne usiamo in proporzioni più poderose, dall’altro perché abbiamo bisogno di una più grande varietà di materiali.

Oggi, ciò che spesso si fa per rendere più efficienti le tecnologie è fare delle leghe, mescolando i metalli tra loro.

Così i nostri cellulari vengono a essere composti da sessanta, settanta metalli, appunto sotto forma di leghe.

Vediamo quindi la contraddizione tra la loro superficie pura, eterea, la relativa semplicità di uso e, d’altra parte, la complessità della loro fabbricazione.

Ed ecco un primo paradosso: siamo proprietari di questi oggetti ma siamo spossessati della comprensione del loro funzionamento.

E noi, proprio perché spodestati dalla conoscenza del loro funzionamento, non abbiamo controllo sul costo ecologico e di fabbricazione di questi oggetti.

Ci sono nuove forme di inquinamento che ci sono sconosciute e verso le quali non sappiamo come reagire.

Ha parlato di metalli.

C’è stata un’età del rame, del bronzo, del ferro: come dovremmo chiamare la nostra epoca?

La chiamerei l’età di tutti i metalli. Rame, bronzo, ferro, forse potremmo parlare anche dell’età dell’acciaio – se la prima guerra mondiale è stata così distruttrice è anche per l’acciaio dei suoi obici.

Oggi però usiamo quasi tutti i metalli che si trovano in natura: non ne usiamo uno o l’altro nello specifico e quando cominciamo a usare di nuovi, non rimpiazziamo quelli vecchi.

Li co-utilizziamo sotto forma di leghe, perciò il consumo dei vecchi metalli non cessa, e a esso si aggiunge il consumo di nuova materia prima.

Nuovi metalli appaiono in questo paesaggio, metalli che non erano usati nemmeno venti, trent’anni fa e che oggi sono indispensabili, come le terre rare.

Inoltre usiamo più cobalto, più grafite, più nickel. Insomma, metalli il cui uso è stato abbastanza limitato finora e che oggi diventano estremamente strategici, nonché centrali per la nostra vita quotidiana.

Così ognuno di noi, ogni giorno, fa uso di almeno settanta metalli: i metalli dei telefoni di cui già parlavamo, dei server, dei cavi sottomarini della rete, dei satelliti, delle pale eoliche e dei pannelli solari che tra gli altri alimentano l’infrastruttura di internet.

In un capitolo la chiama l’insostenibile leggerezza della rete.

Che è solo apparente, perché l’industria di internet invece ha ovviamente un peso ecosistemico.

La parola “peso” è importante. Quando parliamo di “tonnellate di CO2 emesse nell’atmosfera” ci stiamo appunto riferendo a un peso, perché parliamo del peso di un gas.

È altrettanto questione di un vero e proprio peso quando si parla di digitale, di telefoni, persino di email e di video.

Non è un peso in termini di emissioni dirette di gas serra quanto un peso di materie.

Siamo in grado di stimare il peso di ciò che appare così impalpabile e intoccabile, come un video, vale a dire siamo capaci di pesare la materia necessaria per rendere il video possibile.

Il Wuppertal Institut in Germania ha ideato il Mips (Material input per service unit), un indice che pesa tutte le risorse impiegate per fabbricare e mantenere un oggetto quotidiano, la mia camicia e la mia tazza di caffè.

Ma altrettanto possiamo pesare un’email, un video, una foto, un like, una transazione bancaria, perché questi dati passano attraverso un’infrastruttura che è reale.

È difficile da valutare, ma sempre più ricercatori se ne stanno occupando.

Così comprendiamo l’insostenibile leggerezza dell’etere:

la rete che pareva impalpabile ed eterea in realtà ha un peso.

Oggi resta relativamente limitato, ma diventerà sempre più insostenibile.

Certo, il peso della materia impiegata per internet è già tanto, così come il peso della CO2 derivata è tanto, ma se guardiamo alle previsioni di espansione di internet, beh, diventa incompatibile con tutti gli obiettivi di riduzione della nostra impronta ecologica, GIEC, IPCC, COP, eccetera.

E la sua crescita diviene incontrollabile: abbiamo passato lo stadio al di là del quale non siamo più in grado collettivamente di riprendere il controllo sull’espansione di questo universo che chiamiamo internet.

Eppure, per diminuire la nostra impronta ecologica, le tecnologie sono spesso considerate la sola soluzione.

Lei discute anche il caso delle smart-cities, città rese virtuose dall’uso dell’internet of things.

Proprio quest’uso ha un peso ecologico tale da mettere in dubbio la virtuosità: un sistema di intelligenza artificiale, per esempio, che accenda e spenga i lampioni senza sprechi, può consumare di più dei lampioni sempre accesi.

Non sono di certo tecnofobo:

internet ha permesso tra le altre cose una resilienza durante il COVID, e così abbiamo potuto continuare a conversare, a vivere, e commerciare, eccetera.

Detto ciò, negli ultimi anni la tendenza è stata quella di vedere soltanto gli effetti benefici di internet, soprattutto dal punto di vista ecologico.

È un messaggio che ha colonizzato la parola pubblica, unanime e senza contraddizione possibile: internet è estremamente positivo per l’ambiente, perché si fonda su un’idea di smaterializzazione.

In realtà esiste un costo ecologico che bisogna saper conoscere. 

La realtà è contraddittoria perché da un lato la tecnologia ci permette di valutare e di calcolare il riscaldamento climatico da qui a ottant’anni – cosa indispensabile –, dall’altro lei stessa accelera questa crisi climatica, poiché generatrice di inquinamento.

Quindi è globalmente positiva o negativa?

Io personalmente mi guardo bene dal rispondere a questa domanda perché onestà e umiltà ci impongono di dire che non lo sappiamo, perché ancora oggi manchiamo di strumenti di calcolo adeguati e ci troviamo incerti nel poter valutare cosa di internet è bene e cosa meno sul piano ambientale.

Ma ciò che so è che l’impronta ecologica di internet aumenta a un tasso vertiginoso, dell’ordine dell’8-9% per anno.

È un’impronta ambientale che sta esplodendo perché aumenta la virtualizzazione di ciò che facciamo, il raddoppiamento delle nostre azioni fisiche con azioni digitali, dove una non necessariamente sostituisce l’altra ma viene con l’altra.

Parliamo di aumentare sempre più la potenza dei dispositivi informatici, di intelligenza artificiale, di informatica quantistica, di supercalcolatori, di metaverso, vedremo…

Insomma un’esplosione che rischia di diventare incompatibile con la lotta alla crisi climatica. Perciò è assolutamente necessario prendere il toro per le corna ora.

Quanti in Europa hanno percezione di come funzionino queste cose, secondo lei?

Quanti sanno dove si trovano fisicamente le loro foto di Instagram?

Evidentemente quasi nessuno.

Forse se lo sapessero, gli verrebbe voglia di proteggere meglio i propri dati, di appropriarsene.

Ammetto: non ne sono certo, pongo una questione, ma se sapeste letteralmente che il vostro server si trova in un luogo ben preciso, non avreste voglia di avere i vostri dati con voi?

Al momento i vostri dati non sono veramente vostri.

Forse non sapere dove si trovino questi dati è alla fine un modo di lasciarne agli altri la gestione, di fatto il possesso, e qualsiasi utilizzo al posto vostro, e questo permette di sorvegliarvi meglio, partecipando a quell’economia della sorveglianza di cui parla la sociologa Shoshana Zuboff.

Finché i dati restano nelle mani altrui, rendono queste persone più potenti di noi.

Dunque nessuno ha interesse oggi ad associare questi dati a dei luoghi fisicamente identificabili, sui quali potremmo volere esercitare forme di riappropriazione fisica.

Mi è capitato di parlare del suo libro a una scuola, con studenti di quindici anni.

Hanno reagito dicendo di aver paura.

Non so se fa paura, credo più che dia un sentimento di vertigine.

Dietro l’economia della conoscenza, che è quella di internet, c’è una profonda ignoranza della maniera in cui funziona quest’economia.

L’economia della conoscenza ha l’ambizione di fornire la conoscenza di tutto salvo che di se stessa.

Nei fatti non ci abbiamo nemmeno pensato, questa questione non è stata nemmeno posta, non la sapevamo porre.

Ora ci poniamo il problema e tutt’a un tratto ne sorge un mondo, che ho chiamato inframondo, assolutamente vertiginoso:

vertigine di nuovi mondi che non sono per nulla virtuali ma molto fisici, sottomarini, sotterranei, extra atmosferici, e costituiscono una vera realtà palpabile, anzi un estratto di realtà che ci fa prendere coscienza del fatto che ignoriamo più cose di quante credevamo sapere.

In una società super-informata paradossalmente non sappiamo nulla.

Il potere di internet

si concentra soprattutto, almeno in occidente, in quella che lei chiama aristocrazia digitale.

A volte penso che l’entità di queste grandi imprese ricorda quella delle antiche Compagnie delle Indie.

Certo, le GAFAM non colonizzano terre, ma possiedono infrastrutture, cavi e dati per tutto il mondo e quello in un certo senso è il loro territorio, reso però invisibile.

Il paradosso di Facebook, Amazon, Google… è che sono dappertutto visibili sugli schermi, ma non lo sono da nessuna parte nel mondo reale.

Non ci sono magazzini Google a Parigi o in Italia, né magazzini Facebook.

Certo, ci sono i corrieri di Amazon che trasportano pacchi ma non sappiamo niente dell’infrastruttura che permette di far funzionare quella piattaforma.

Non vediamo i cavi, che sono più e più proprietà delle GAFAM, soprattutto di Google e Amazon, e non vediamo neppure i data center.

Sono perlopiù invisibili e invisibilizzati, dissimulati.

C’è un’occupazione di spazio da parte di queste imprese che sfugge completamente al nostro sguardo, perché sotterranea, perché sottomarina, perché distante.

Il fatto che queste imprese non siano visibili nello spazio reale rende la contestazione più difficile.

È facile trovarsi davanti a una fabbrica e fare un picchetto:

possiamo contestare la direzione, i valori dell’impresa, criticarne il modello politico perché possiamo materializzare l’infrastruttura e contestarla, per esempio, impedendo l’accesso.

Ma qui non c’è niente di tutto ciò: è molto difficile trovarsi davanti alla sede di una delle GAFAM, non manifestiamo davanti ai cavi, né davanti ai data center che sono lontani e resi di fatto invisibili.

Perciò è difficile criticare le imprese e i valori che interpretano e rappresentano, perché è difficile trovarsi davanti all’infrastruttura.

Perciò la critica passa soprattutto attraverso l’hacking e la contestazione online, una smaterializzazione che risponde a un potere smaterializzato.

Ma in ogni caso la manifestazione per come l’abbiamo vista durante le rivoluzioni industriali precedenti è più complicata.

Lei scrive che mentre “gli occidentali fanno solo business” la Cina gioca la sua partita per garantirsi una nuova infrastruttura di cavi costruita da sé.

È un esempio del fatto che la vasta materialità dei cavi è oggi al centro di giochi geopolitici.

Possiamo immaginare guerre sui cavi?

Non possiamo sentire, vedere, e toccare l’infrastruttura e tuttavia, a detta di Greenpeace, sta diventando la cosa più vasta che l’uomo abbia mai costruito.

Poiché è un’infrastruttura che è fatta di 30 milioni di centri dati, di 1,2 milioni di km di cavi, e che domani sarà fatta di decine di migliaia di satelliti che renderanno possibile l’“internet spaziale” su scala mondiale.

Quest’infrastruttura ha bisogno di reti energetiche, perciò servono altri cavi, risorse che, è evidente, si aggiungono.

Insomma, è una cosa che dovrebbe essere la più visibile, tenuto conto della sua importanza, e che al contrario è la meno vista.

Ma veniamo ai cavi:

i nostri dati passano nell’acqua, non c’è internet senza oceani oggi.

Perché è dieci volte meno caro disporre un cavo sul fondale che scavando sotto terra.

Per questa ragione i mari sono privilegiati come strade dei cavi.

Dunque ci saranno guerre per i cavi?

Direi piuttosto che potrebbero esserci dei conflitti tra potenze attorno alla sicurezza dei cavi che sono infrastrutture enormemente strategiche, critiche e vitali, e certo in tempo di guerra possono essere sabotate da entità nemiche.

Come abbiamo visto di recente un gasdotto sabotato nel nord Europa, così potrebbe succedere ai cavi di internet.

Succede già in realtà.

Ora, associamo normalmente internet al divertimento:

le reti sociali, Youtube, Twitter, Instagram, Tiktok.

E questo divertimento sarà difeso da eserciti, ci sarà la guerra perché ci si possa distrarre.

In ogni caso assistiamo già oggi a una presa di coscienza da parte degli stati della fragilità di queste infrastrutture.

Oltre al divertimento però sui cavi passano dati essenziali come quelli dell’high frequency trading.

Per gli azionisti che affidano la compravendita di azioni ad algoritmi, capaci di lavorare in frazioni di secondo, recuperare millisecondi è questione di soldi.

La filosofa Katherine Hayles

raccontava sul Tascabile di un nuovo cavo steso tra la borsa di New York e quella di Chicago, costato 300 milioni di dollari, per recuperare 3 millisecondi.

Proprio Hayles ha introdotto il concetto di “assemblaggio”, ovvero sistemi cognitivi in cui sono inclusi uomini e macchine.

Ora, un assemblaggio interessante che ho trovato nel suo libro è proprio quello tra le supertecnologie che si sfidano per qualche millisecondo e i marinai che posano quei cavi, facendo un lavoro che sembra antiquato.

È divertente e interessante.

Associamo internet a tecnologie estremamente evolute, e difatti il prodotto finito ci si offre col suo potere demiurgico;

conosciamo le sfide geopolitiche che tutto ciò comporta e è tutto vestito da un marketing futurista – come si è detto, l’AI, i supercalcolatori, i data center hyperscale.

Ma quello che ho voluto fare è vedere cosa sta sotto: come fabbrichiamo questa infrastruttura, come ne garantiamo il funzionamento, come la ripariamo, come la ricicliamo.

Dietro tutta questa tecnologia ci sono le storie, per esempio, di lavoratori filippini e indonesiani che recuperano, per riciclarli, i vecchi cavi dal fondo del mare utilizzando degli uncini, con metodi di cento, duecento, trecento anni fa.

Ci vuole molta intelligenza biologica per mantenere in funzionamento tutto ciò che riguarda l’intelligenza artificiale e alle volte quest’intelligenza biologica è fatta semplicemente di mani e muscoli.

In effetti la materialità di internet è anche quella di uomini e donne che lavorano quella materia, che operano affinché resti funzionante.

Serve molto umano per far funzionare un mondo preteso senza umani.

In principio internet pareva un’utopia, uno spazio libero di conoscenza.

Davanti a tutte queste sfide c’è spazio per nuove utopie? Che forma avranno, quello di data center cooperativi?

Esistono limiti che non sono fisici o tecnologici, ma politici e psicologici:

si tratta di porre la superdigitalizzazione delle nostre società di fronte ad aspetti e valori, come la salute mentale, la democrazia, la preservazione dell’ambiente.

È qui che le nostre società possono fissare dei limiti che si trasformino in leggi che inquadrino la potenza tecnologica.

Questo inaugurerà una società ideale in cui l’uomo sarà capace di saggezza davanti alle creature tecnologiche che ha messo a punto?

Ne dubito.

Non sono molto ottimista, penso anzi che la scienza possa procedere anche senza coscienza.

Penso che, benché anche dentro un quadro di crisi ecologica e geopolitica, non siamo in grado di porre queste questioni con saggezza, anni e anni in anticipo, e dunque di riflettere collettivamente su come trattarle.

Lo facciamo quando siamo spalle al muro.

Dunque non credo che questa società utopica possa esistere un giorno.

Fonte: iltascabile

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