Ars medica
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Arte e medicina: un fecondo cammino tra saperi antichi e le attuali scoperte delle neuroscienze

Il passato

L’ars medica. L’arte ha accompagnato la medicina fin dal suo apparire nella storia dell’umanità, e forse non a caso la sua antica denominazione era proprio ars medica.

Curare era un sapiente composto di sensibilità, intuizione e creatività come l’arte suggerisce.

I più antichi luoghi di cura erano collocati in posizioni occulte e segrete, dove la bellezza della natura e dei luoghi accoglieva i malati e risultava di per sé già terapeutica.

In seguito i primi ospedali (che praticavano cioè l’arte dell’ospitalità) accoglievano senza alcuna discriminazione gli individui più umili e permettevano loro una sosta, un ristoro, e anche il godimento di qualche bellezza artistica e umana.

A partire dal Medioevo i primi veri ospedali di cui conserviamo imponenti vestigia mostrano l’altissima perizia degli esecutori fin nei minimi dettagli delle strutture: architetture monumentali, sculture, affreschi, preziosi intagli lignei.

La povertà degli ospiti non escludeva l’attenzione alla bellezza dei luoghi di ricetto, anzi forniva loro l’occasione propizia per poterla vivere, proprio nei momenti più duri della loro già misera esistenza.

Ars medica. Il presente: tecnica ed efficienza fanno bene alla salute?

In questo tempo di medicina basata sulle evidenze, di protocolli e di linee guida, di controllo di gestione e di managerializzazione della sanità, contemporaneamente è cresciuto il disagio lavorativo di medici e infermieri (il cosiddetto fenomeno del “burn out”) ed è aumentato in parallelo il contenzioso medico-legale dei pazienti che rivela lo scarso gradimento prodotto sugli utenti da questa sanità efficiente e tecnocratica.

E’ paradossale che la cura, ambito libero e creativo per eccellenza, sia precipitata in un tale stato di crisi.

Oggi comprendiamo che la sola tecnica, l’efficienza e gli standard di qualità non bastano alla medicina, ma possono al contrario usurare gli operatori, e purtroppo quando l’operatore si “guasta” gli diventa assai difficile curare.

Quando il medico diventa cinico, sfiduciato, irresoluto, il malato si trasforma in un fastidio, un peso, un rovello.


Invece dell’auspicata alleanza terapeutica, comincia la guerra fra curante e curato, con la nota conseguenza della “medicina difensiva” che si traduce in una spesa sanitaria in costante aumento a causa del moltiplicarsi di prestazioni sanitarie inutili se non addirittura dannose.

Approfondire quali sono le prevalenti cause di burn out ha permesso di riorientare gli interventi che sostengono e promuovono il ben essere lavorativo, diventato ormai oggetto anche delle normative italiane.

Fra gli interventi che si stanno affermando soprattutto a livello internazionale, ha attratto l’attenzione degli studiosi e degli amministratori l’estesa diffusione della pratica delle arti che riappare nelle strutture dedicate alla cura.

Nella nostra epoca di stretto funzionalismo e di (presunta) efficienza, di occhiuta parsimonia, di ricerca della performance tecnico-professionale, stiamo all’improvviso riscoprendo l’esigenza primaria dell’arte che spontaneamente emerge fra gli operatori sanitari.

Per superare il burn out, e sopportare carichi di lavoro sempre più massacranti, i professionisti della sanità hanno cominciato a fare musica insieme, a dipingere, a scolpire, a comporre canzoni e poesie, a dilatare il proprio operato oltre la sola funzionalità.

Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe secondo i modelli di efficientismo aziendale, questo non li distrae ma anzi li ricarica, li motiva nuovamente, li sostiene nella fatica e nella sofferenza.

Ed è il paziente che ne trae alla fine il maggior beneficio: perché mentre l’operatore “bruciato” è cinico, disaffezionato, incapace di relazione empatica, un operatore restituito alla naturale passione per il proprio lavoro dà il meglio di sé nella relazione di cura.

Si è infatti osservato che nelle strutture sanitarie in cui insieme si fa teatro o si suona, si narrano storie di vita e di malattia, si dipinge o si danza, subito l’atmosfera di lavoro migliora, si illumina, cessano il tedio e la fatica.

Gli operatori della salute sentono di nuovo risvegliarsi l’inclinazione ad ascoltare i pazienti, a mettersi all’unisono con loro, a sostenerli anche quando le prognosi sono croniche o infauste.

Abbiamo osservato medici impegnati coi malati in coma o con pazienti smarriti negli stati vegetativi permanenti (attualmente le frontiere estreme della medicina) che non si lasciano abbattere dalla frustrazione e dall’impotenza ma sanno resistere al loro fianco con tenacia e perseveranza.

I medici che hanno familiarità con le arti e le portano nella vita professionale continuano a dialogare nel profondo anche con pazienti in stato minimo di coscienza.

Essi traggono spunto dalle arti per “immaginare”, per loro e con loro, nuovi mondi nei quali i pazienti potranno “sentirsi a casa” malgrado la patologia che li affligge o i devastanti esiti del trauma o del coma: mondi inusitati, ma tuttavia ospitali e accettabili quando le chances performative sembrano ormai azzerate.

Occorrono profonde prospettive interiori, e straordinarie risorse immaginative, per suggerire possibilità di cura e di guarigione a chi non risponde né reagisce cognitivamente.

Acuire la capacità di comprensione dell’altro, quando la comunicazione verbale e linguistica è interrotta temporaneamente o definitivamente, è ciò che sempre l’arte consente di fare: esplorare l’inconsueto, l’ignoto, il perturbante.

Questo approccio che vanta una lunga tradizione nel mondo impenetrable della malattia psichiatrica, e mostra risultati incoraggianti nel trattamento delle demenze, dell’Alzheimer, dell’autismo, si estende ormai ad ambiti sempre più estesi di patologie croniche.

La terapia si realizza solo nell’incontro fra due soggetti che si pongono alla ricerca di qualcosa che non è data in sé ma va continuamente creata e ricreata, e si compone di sguardi, di parola, di tocco, e molto spesso vive di silenzi e di attesa.

La cura è soprattutto atto di relazione, quanto mai creativo e individualizzato.

C’è qualcosa di nuovo in medicina, anzi di antico…

Abbiamo a lungo creduto, e ancora in gran parte crediamo, che i successi ottenuti dalla medicina occidentale siano da ricercarsi negli apparati e nelle attrezzature tecnologiche più avanzati.

Tuttavia, in ogni corretta ricerca scientifica, ci adoperiamo puntigliosamente per sopprimere l’effetto di “confondimento” prodotto dal fattore umano, proprio perché ne conosciamo lo straordinario potere.

Oggi il cosiddetto effetto “placebo”, agito del tutto inconsapevolmente da parte dei curanti, viene stimato essere un componente dell’esito delle procedure di cura per oltre il 40% della loro efficacia.

E l’effetto placebo altro non è che l’intrinseca “poetica” di ogni cura, cioè la creazione implicata da un incontro, singolo e irripetibile, diverso in ogni momento e secondo il variare dei protagonisti.


Ars medica. L’arte è da sempre il prodotto privilegiato di un atto creativo

Ricollocare le arti in medicina significa dare più forza alla cura, ri-animarla, sostenerla, nutrirla.

Permettere e moltiplicare le occasioni di fare arte nelle strutture sanitarie è come annaffiare un giardino disseccato da un eccesso di tecnica e di omologazione scientifica.

Tuttavia, per arrivare a condividere queste intuizioni, bisogna aver fatto profonda e personale esperienza di esse, spesso in completa solitudine ea volte nella più totale clandestinità.


Occorre essere arrivati a comprendere che si cura con la voce, si cura con la presenza, e soprattutto che il malato si cura da sé, ma aiutandolo in modo empatico ed efficace.


La pratica artistica permette di riscoprire antiche forme di terapie e di saperi, spesso appartenenti ad altre tradizioni e culture, dove i terapeuti erano cultori della cura col tocco, con la vibrazione energetica, con il contatto empatico profondo.

Gli operatori che praticano le arti hanno in comune una grande curiosità, uno spirito e uno sguardo liberi e aperti, senza preconcetti, senza barriere culturali.

Osservano, traggono le loro valutazioni, e si allenano – per sé e per gli altri – a percepire la loro essenza profonda.

Applicano il vecchio precetto “Medice, cura te ipsum” e pare che funzioni.

L’uso consapevole di questi strumenti caratterizza medici più solleciti e pazienti più soddisfatti.

Qualunque sia l’esito finale delle terapie, si percepisce il vero senso della cura: far stare meglio, e non solo il curato ma anche il curante.

Succede così che sempre più numerosi e prestigiosi ospedali del mondo accolgono le arti come strumento efficace di sostegno alla cura e ai curanti: musica, teatro, danza, movimento corporeo, pittura, scultura, narrazione.

Ars medica.Perché le arti accompagnano da sempre la storia dell’Uomo?

Il modello neurofisiologico. Le recenti scoperte delle neuroscienze relative alle basi neurofisiologiche della percezione mostrano le probabili ragioni dell’efficacia terapeutica delle arti.

Le nuove tecniche di imaging hanno permesso di visualizzare quali aree del cervello si attivano quando si contempla un volto, e hanno mostrato che la vista di un volto suscita memorie che lo fanno distinguere e riconoscere nel tempo.

Il volto è il cardine della relazione sociale, e pare che l’attenzione al volto cominci ad apparire già dalla primissima infanzia.

D’altro lato, la spinta all’accudimento che si prova nei confronti dei neonati potrebbe dipendere proprio dalla forma del loro volto che induce un forte sentimento di protezione.


Le aree cerebrali deputate alla percezione e alla conoscenza fanno molto di più che ricevere passivamente gli stimoli che provengono dagli organi di senso: esse esercitano una potente cooperazione cognitiva, che giunge a risistemare e addirittura a (ri)costruire tutti i dettagli oggettivamente mancanti nei segnali ricevuti.

Noi possiamo riconoscere la natura e addirittura la posizione di una persona o di un oggetto sulla base di frammenti di immagini scomposte o sovrapposte che giungono al nostro occhio e dalla cui visione seppur parziale
siamo in grado di identificarli e di situarli correttamente nello spazio.

Da queste immagini siamo capaci, inoltre, di percepire lo stato emotivo dell’altro, facendone immediate “diagnosi” psicologiche prima ancora che esse giungano compiutamente alla coscienza razionale.

I neuroscienziati hanno evidenziato che questa caratteristica, di formulare giudizi a partire da un’informazione incompleta o ellittica, è massima nella fruizione dell’opera d’arte, poiché essa induce un’estrema “cooperazione creativa” nel soggetto che la fruisce.

In realtà l’opera d’arte mima intenzionalmente le emozioni e lo stato d’animo dei soggetti rappresentati

A queste emozioni lo spettatore risponde con una reciproca emozione, di cui ritrova traccia nella propria memoria.

La risposta empatica che suscita un’opera d’arte dipende dal riconoscimento inconscio dello stato psichico del soggetto ritratto, e forse pure dell’espressione delle sue più profonde aspirazioni e desideri.

In questo senso, la risposta soggettiva ad un’opera d’arte non è altro che il modello di funzionamento del nostro rapporto al mondo.

Noi facciamo continue inferenze relazionandoci agli altri: questo stato di costante attenzione al mondo nel quale viviamo si acuisce quando siamo davanti a un’opera d’arte in cui l’artista ha inserito dettagli e simboli, spesso tutt’altro che oggettivi, ma ancor più capaci di evocare in noi riconoscimento, conoscenza ed emozione.


A questo si aggiunge, nella pittura o nella musica, la potenza evocativa dei colori e dei suoni e le infinite modalità delle loro combinazioni.

Il cervello trasforma l’oggetto percepito dagli organi di senso in un’emozione che arriva al livello di coscienza.

L’amigdala sembra svolgere un ruolo essenziale nel sistema neurale coinvolto nella percezione e nel coordinamento delle emozioni: è dall’amigdala che si orchestra tutta l’esperienza emotiva, sia positiva che negativa, coordinando la risposta dei circuiti neuronali agli stimoli emotivi, smistando ciascun stimolo pertinente ai circuiti appropriati e silenziando quelli ritenuti ininfluenti.

Sono le emozioni che, a breve e a lungo termine, sembrano determinare tutta la progettazione strategica del nostro comportamento.

Ars medica. Bello/brutto: quali emozioni?

Sulle nostre reazioni emotive, e sulla loro influenza sulla nostra progettazione esistenziale, interviene in alto grado la percezione della bellezza: “ciò che soprende nella biologia della bellezza, dice Eric Kandel, è che l’ideale di bellezza è variato assai poco da un secolo all’altro e da una cultura all’altra.

Diversi aspetti di ciò che implicitamente giudichiamo attraente è probabile riguardi caratteri che si sono conservati nel corso dell’intera evoluzione.”


L’esistenza di criteri di bellezza condivisi e permanenti nel tempo è cruciale per capire la funzione dell’arte nella vita e nella cura.

La regione della corteccia prefrontale, che viene attivata dalla ricompensa e che si ritiene sia all’apice della rappresentazione cerebrale del piacere, è attivata da volti attraenti e la sua attivazione aumenta col sorriso.

Così espressioni di gioia, di amicizia, di fiducia suscitano analoghe emozioni di reciprocità e facilitano la comunicazione che struttura la relazione sociale che è naturalmente orientata all’approccio e non all’evitamento.

Lo sguardo aperto e diretto stimola il sistema dopaminergico che presiede alla gratificazione, mentre uno sguardo triste, impaurito o anche solo sfuggente induce una reazione di evitamento.

Nell’arte

tuttavia, non sono presenti solo immagini belle e attraenti, ma anche repugnanti, paurose o francamente brutte, perché comunque l’arte arricchisce la nostra vita, ci espone alla varietà e all’intensità di sentimenti, di emozioni e di idee che forse non avremmo mai l’occasione di sperimentare altrimenti.

L’arte

Consente alcune fra le esperienze più emotivamente coinvolgenti per l’essere umano, inducendo un’esperienza cerebrale dell’immaginario che allarga la conoscenza e l’esperienza della realtà che facciamo usualmente nella vita quotidiana.

E’ indispensabile impegnarsi insieme a conoscere meglio noi stessi e comprendere la via al nostro proprio star bene perché attraverso questa via si potrà aiutare anche gli altri a stare meglio.

Per aiutare maieuticamente gli altri a ritrovare la salute, l’operatore sanitario deve diventare in sé un modello di salute.

Se “l’arte è la cosa che più ci avvicina alla vita ed un modo per amplificare la nostra esperienza”, come scrisse George Eliot, si comprende per quale ulteriore ragione essa è così efficace come via di azione terapeutica: perché fornendo nuove chiavi, inconsuete e non convenzionali, alla scoperta di sé, più di ogni comprensione razionale e cognitiva, l’arte rivela il sé a sé, ciò che è il vero principio di ogni possibile guarigione.

Nel processo di cura traspare una grande aspirazione alla scoperta dell’autenticità del soggetto come radice della salute.

L’autenticità postula un’azione di autoriconoscimento a cui si accede attraverso plurimi indizi e per percorsi non univoci.

La psicoanalisi ci ha rivelato come l’Inconscio sia una riserva pressoché infinita di moventi, di impulsi e anche di soluzioni atipiche di cui ogni soggetto resta inconsapevole fino a quando uno stimolo esterno – e più spesso interno, come la malattia – non lo induce a varcare la soglia delle apparenze note e ad addentrarsi interiormente per sentieri perigliosi e fino allora sconosciuti.

Sotto questa luce risulta sovvertito il concetto stesso di “malattia”, perché la malattia non è in realtà un “male in sé”, ma piuttosto un’inestimabile opportunità di ricerca e di scoperta evolutiva (di cui la lingua francese riesce a dare una esplicitazione fonetica: “maladie” come “mal a dit” – il male ha detto).

Questo apparente paradosso concettuale trova giustificazione nei sorprendenti risultati che emergono dalle neuroscienze: il rapporto fra bello e brutto mostra infatti un parallelismo biologico nel continuo slittamento fra piacere e dolore.

In questa vasta e appassionante ricognizione, oggi incrociamo ricercatori, professionisti ed artisti, filosofi ed antropologi, che si interrogano su quali forme può prendere la libera e gratuita vocazione degli esseri umani nel portare sollievo e sostegno ai pazienti.

In mezzo alla cultura prevalente del controllo dei costi e della assistenza organizzata secondo linee guida e protocolli standardizzati, la presenza delle arti in medicina si sta affermando con un moto assolutamente spontaneo, recuperando tradizioni antichissime e mai sopite, di cui la scienza si incarica di darci le prove della sua necessità per la cura e per la vita intera.


Secondo Dennis Dutton le arti non sono un prodotto secondario dell’evoluzione: come dimostrano i reperti più antichi che conserviamo sulle pareti rupestri di molti siti primitivi, esse sono la via maestra per conseguire l’adattamento che ci ha aiutato e ci aiuta costantemente a sopravvivere e ad evolvere.

“Al suo livello più profondo, la vita ha una grande possibilità di azione, definita da una plasticità che sfida ogni determinismo. Siamo semplici catene di carbonio, ma trascendiamo la nostra materia prima. In questa visione della vita c’è qualcosa di grandioso”.

Per capire e curare l’infinita complessità dell’Uomo, oltre alla tecnica e alle competenze professionali, come dice Massimo Gramellini, “ci vuole cuore, ci vuole Shakespeare”.

Dott.ssa Rossana Becarelli

Tratto dal libro “Medicina e arte”

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